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Fuggire per salvarsi: una comune reazione alla paura.

A noi, che in questi giorni di quarantena forzata è permesso uscire unicamente per reali motivi di necessità.


A noi, che in questi giorni, neanche spostarsi per lavoro è più permesso.


A noi, che in questi giorni iniziamo a percepire il peso di una diversa condizione di vita, perché oltre ad essere mutate notevolmente le quotidiane abitudini, ci è stata ristretta la libertà di movimento.


A noi è chiesto di resistere agli effetti delle limitazioni imposte, rimanendo nelle nostre case e, conseguentemente, riorganizzarci.

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(Illustrazione di Giorgio Cipriani)


Lo scopo è sconfiggere un nemico potente che ha mostrato di non avere occhi per scegliere chi colpire, di non badare a discriminazioni di alcun genere. Un nemico microscopico, quasi invisibile eppur tanto terrificante.Un nemico che ci porta via le persone care o la nostra stessa vita, il nostro presente e il nostro passato, i nostri sogni sul futuro.


Un nemico simile e diverso al tempo stesso rispetto a quello di molti altri Paesi, Paesi in guerra martoriati da violenze, dalla fame provocata da regimi dittatoriali.


È un nemico simile poiché anch’esso uccide e infrange sogni; ma diverso perché è invisibile e crudele verso tutti, poveri o ricchi, potenti o no e non persegue un fine.


E tuttavia, nonostante la consapevolezza di quanto avvenga in quei Paesi (pensiamo a Siria, ai diseredati e dimenticati di Lesbo, alla perenne guerra in Yemen, la Libia, e tanti altri, molti stati dell’Africa) e delle “vere ignobili ragioni” che sottostanno a quelle atrocità, ci sentiamo sempre così distanti da chi le vive.


Quelle minacce non ci appartengono, le sentiamo lontane, esterne alla nostra sfera di interesse. Siamo portati a girare il volto da un’altra parte e, nei peggiori dei casi, a giudicare sbagliato o addirittura una colpa che le vittime di queste violenze migrino dai Paesi di origine per cercare salvezza e futuro altrove.


Ma ora che il “nemico invisibile” ci costringe a fermarci, a riflettere, noteremmo che tra il nostro modo di agire, di fronte all’attuale minaccia di questo virus, e il loro, di fronte a guerre e persecuzioni, vi è una stretta parentela.


Dinanzi al “nostro” nemico quali sono le emozioni più forti e immediate?

E le conseguenti reazioni -di moltissimi di noi- ad esse?


La paura e la fuga.


La paura è l’emozione che maggiormente determina comportamenti istintivi e spesso estremi. Fa parte delle nostre emozioni di base ed è una delle prime emozioni che si manifesta sia negli animali che negli esseri umani. Un’emozione primaria di difesa che viene attivata davanti a stimoli che ci spaventano: ha infatti una grande utilità per l’uomo, mettendolo in guardia davanti a situazioni di potenziale pericolo.


Come tutte le nostre emozioni, la paura è caratterizzata da un’attivazione fisiologica del nostro corpo. In particolare, quando proviamo paura avviene un incremento della frequenza cardiaca e respiratoria, si verifica maggiore motilità intestinale, aumento della sudorazione e una maggiore tensione muscolare.


Questi cambiamenti a livello fisiologico preparano la nostra reazione comportamentale davanti alla situazione di pericolo. Le principali risposte che mettiamo in atto sono l’attacco e la fuga. L’attacco ci permette di contrastare l’ostacolo mentre la fuga consente di abbandonare la situazione temuta al fine di garantire la propria sopravvivenza.


Vi sono infine situazioni in cui, non riuscendo a prendere decisioni, si innesca il freezing, (letteralmente "congelamento”), uno stato in cui siamo totalmente bloccati dalla paura.


Nell’analisi presentata, tuttavia, vediamo che il comportamento relativo a specifiche situazioni -sia che ci sia un virus sia che ci siano bombe ad innescare l’allarme- è quello di fuggire per salvarsi.


Ricordiamo infatti il comportamento sconsiderato di molti di noi che durante i primi giorni di allarme (e non solo), sono tornati rapidamente in patria dai loro domicili esteri o da una regione all’altra del nostro Paese. Tornando alle proprie case, il luogo dove ci si sente spesso più sicuri.


E abbiamo ragionevolmente stigmatizzato quel comportamento, finendo tuttavia per “assolverli”, comprendendo lo stato d’animo che aveva generato l’esodo: il legittimo umano desiderio di fuggire da un pericolo ignoto e raggiungere luoghi e affetti familiari.


Questa minaccia è stato qualcosa per cui agire subito, a cui reagire.


Una guerra che si combatte con le armi sempre più micidiali, con la distruzione di case, intere città e con un incalcolabile numero di vittime umane è qualcosa per cui agire subito, a cui reagire.


Genericamente, tutte le situazioni di pericolo che vanno a mettere a repentaglio il bene più importante e insostituibile della nostra esistenza, la salute -quindi la vita- hanno come reazione comune la fuga.


Si scappa per mettersi in salvo. Niente di più scontato e di più immediata comprensione.


Eppure perché quando il pericolo interessa gli altri è così difficile essere comprensivi, empatici?


Cerchiamo una valida ragione per disprezzare la fuga di quelle milioni di persone sospinte dalla necessità di sottrarsi a morte certa spingendosi verso altri luoghi, luoghi sicuri.


Ora che temiamo personalmente per la nostra salute ed il nostro futuro potremmo prendere reale consapevolezza che non esiste regola o minaccia dissuasiva che possa fermare la migrazione di qualcuno che teme per la propria vita e quella della propria famiglia.


Comprendere -quindi esserne compassionevoli- che solo la disperazione ti porta ad abbandonare la tua casa rischiando in molti casi la stessa vita.


Perché anche noi oggi stiamo vivendo queste emozioni, anche noi ogni giorno stiamo avendo il nostro piccolo assaggio di paura e anche noi oggi per paura stiamo reagendo.



Ringraziamo Valeria Uncino per la preziosa collaborazione nella scrittura di questo articolo.


 
 
 

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